Ho iniziato a lavorare con la scultura in realtà in maniera impropria. Soffrivo di febbri molto alte dovute ad una malattia autoimmune.
Per caso mi capitò di leggere su un libro di mistica medievale che per sfebbrare i malati veniva usato del gesso. E così mi recai in farmacia chiedendo del gesso per me e fui introdotta all’uso delle bende gessate che usavo sulla fronte, sotto le braccia e all’inguine. Un giorno in cui il carico di febbre era particolarmente consistente, decisi di mettermi il materiale sull’intero viso e, quando le bende si asciugarono, trovare la forma del mio viso all'interno di questo materiale che poi di fatto era un calco, mi ha dato un programma di lavoro e oserei dire di liberazione. Ed è cosi che da allora per sfibrarmi ho iniziato a fare calchi su calchi: penso di averne prodotti più di 1000 e più lavoravo più scoprivo che ogni calco rappresentava una parte di me stessa che tentavo di espellere e così, pelle dopo pelle, assottigliavo qualcosa di me mentre si materializzava fuori, una forma che cercava di venire alla luce col suo calore che raggelavo. Ho sempre saputo di ardere e questo metodo mi permetteva di avere una prova che aveva il mio viso a testimoniarlo.
Eppure quello che consegnavo non era il mio viso ma, in realtà, una piccola armatura. Artaud dice che nascere è abbandonare un morto e piano piano mi resi conto che quei resti di me, quindi tutti quei calchi, non ero altro che degli abbandoni. Tuttavia consegnare un abbandonano è cosa molto complessa perché ha una forma di ambiguità molto alta in questo caso: il calco conservava all’interno il contatto con la figura , con la mia pelle cruda, con la temperatura che delimitava il tempo che per me era oramai meditativo e solitario, visto che ogni impronta è un atto privatissimo come poche altre cose al mondo, e quello che il calco offre con questo metodo è ancora una protezione della pelle dal contatto con l’esterno.
Quando ho iniziato a riempirli di poliuretano per indurirli e arabescarli, per insufflare loro la dimensione vitale, bruciarli, dominare il fuoco che dall’interno divampava come da dentro di me, ci sono stati momenti di coincidenza cosi alti che è difficile spiegare poi il passaggio dalle bende cosi riempite allo spellamento che il gesso richiedeva proprio della protezione, e quello spellamento faceva emergere un resto del contatto, sempre compromesso anche lui dalla temperatura del gesso che oramai era delegato a essere il mio corpo vero per interposto materiale.
Le bende per me sono state una forma di pagina, il mio braille personale perché potevo calcare da cieca seguendo un codice che leggevo con le mani, il passaggio con cui ho iniziato a considerare il corpo nella sua vita reale e complessa, un sistema dal quale rintracciare un codice sorgente per la lettura di questa carta cifrata che siamo.
Quando ho iniziato a lavorare col gesso, molto tardi, ho saputo da subito che stavo lavorando ad un reperto.
Non dico il primo corpo realizzato, o il secondo e neanche il terzo. Mentre imparavo a maneggiare le dinamiche e le termodinamiche del materiale, maneggiavo i corpi (che altro non erano che la disponibilità del mio a rendersi forma, visto che i negativi dei calchi li improntavo direttamente da lui), sapevo che stavo lavorando a un dissotterramento, o a un processo di dissotterramento. Mi ripetevo questa parola costantemente. Era un suono di movimento; eppure, aveva a che fare con qualcosa di immobile, e più che la parola in sé il dissotterrare divenne un esercizio di concentrazione. Ai tempi, cercai vicino al mio studio di allora un campo dove andare a interrare le sculture quando erano ancora molto fresche e odoravano di umido. Le ripulivo dopo giorni che erano state nel terreno e farle emergere dalla terra era scoprire che contenevano un dato temporale. Un dato temporale immobile. Nello studio in cui lavoro ora ho un buco nel cemento del pavimento che il tempo ha scavato e in cui qualche sparuta ma inarrendibile felce è cresciuta non vista nel terreno. E così interramento e dissotterramento li agisco dentro il mio habitat e questo ha aperto un tempo di grande energia. E dai corpi intesi come forme di ventre, cosce, seno, visi, mi sono ritrovata a lavorare con la forma delle ossa, a costruirmele. Vivo in quella che chiamo ancora Età dell’osso.
Il luogo in cui sono cresciuta, in Abruzzo, era pieno di tombe sannite attorno al lago e che scavando emergevano dalla terra con le loro ossa. La prima volta che ne vidi una, il fremito non fu quello dello spavento, ma il fremito che viene dal tempo, dall’aver disseppellito una verità e di forse anche mancata. Come quando ti consegnano una sillaba e tu sai che da qualche parte una frase la sta aspettando, una frase che tu devi pronunciare dalla tua memoria ma non ricordi se non un alone di senso in cui sei immerso. Così funziona anche nell’intelligenza dentro la materia dell’opera a cui lavoro, Scavi trovi il reperto. Il frammento non ti basta ma per molto tempo ti aggiri tra i frammenti.
Non devi credere troppo al frammento, ma devi credergli completamente, non devi chiedere tutto, ma devi stare di fronte con tutta la tua domanda.
Il frammento deve rimanere aperto. Così l’opera. Non può chiudersi. È sempre parziale, inquieta, sempre in debito con l’opera che viene dopo. Ogni scultura è impossibile da finire. Da finire una volta per tutte. Non si sigilla. Sposta il suo sigillo. È come un enigma che si muove nelle radici del linguaggio. Senti l’ombra d’oro ma se vuoi metterti sotto la sua luce il buio raddoppia. E il buio è una forma di terreno. Ogni volta che estraggo un’opera dalla terra io so che più in là da qualche parte ci sarà un corpo salvo a cui è destinata a congiungersi, lo so. Come so che da qualche parte c’è una parola da cui è decifrabile.
Così possiamo dire che quei frammenti sono indizi di linguaggio e il linguaggio è una tensione di accoppiamento come se qualcosa potesse completarsi solo in maniera invisibile (e qui la contraddizione con la materia) e indicibile (e qui la contraddizione con la parola).
Non c’è contemporaneità senza questa tensione. E siccome il tempo svela l’essere non c’è contemporaneità il senza tempo. Essere contemporanei al tempo è una cosa molto seria. Non è essere contemporanei al mercato che insiste su un linguaggio senza evento e che ha la sua funzione, quella di rendere efficace il posto del lavoro nel mondo.
Ma l’efficacia non è l’ambizione dell’opera.
L’opera come ambizione ha quella di existere, levarsi dalla terra, del manifestarsi dell’essere e come il linguaggio poetico l’opera vuole Evenire, ossia vuole essere evento, all’interno dell’essere.
È questa per me l’ambizione alla grandezza. Che ha anche la sua distruttività perché quel tempo che vuole manifestarsi, quell’essere che vuole evenire si incarnano quando rendi disponibile la tua carne. L’arte è spolpante ma noi abbiamo anche bisogno di essere mangiati perché tutto questo corpo senza quella incarnazione non ci serve.
Quando si parla dell’essere soglia da parte di un artista, si parla di questo grado di recezione non comune, per cui anche le forze e il peso della sua umanità sono spostate verso i centri di irradiazione delle tensioni vitali dove si formano le figure, le immagini che girano sotterranee in cerca di luce e che vogliono e devono essere aperte altrimenti il mondo morirebbe di un respiro tenuto sottovuoto.
La potenza disturbante dell’essere che sta sulla soglia. E soglia è una parola così sottile che mi da vertigine. Ma quando lavori tra te e la memoria del mondo dove la soglia ti chiede di lavorare e scomparire c’è un prodotto residuale. Un prodotto residuale che non puoi ridurre.
Esiste nel giardino del linguaggio una parola che amo molto ed è Luz. In una tradizione religiosa il Luz non è l’anima ma quella parte di materia in te, piccolissima, irriducibile, dalla quale, qualunque sia la tua morte, tu verrai ricostruito. Chissà se è vero che ci salveremo tutti in virtù delle nostre opere e quanto questo monito sia squilibrante per un artista